§ 1.- Per secoli, secondo Heidegger, l’essere è stato pensato come esser presente, nel senso temporale che noi attribuiamo solitamente a questa espressione; nel senso cioè in cui “Essere, in quanto presenza, è determinato tramite il tempo”[1].
Ovvero:
l’essere è sempre stato rappresentato e percepito dalla ontologia come
fosse l’ente[2]
(ta önta), il quale a
sua volta è stato “[…] concepito […] come ‘presenzialità’, cioè […] in
riferimento a un determinato modo del tempo, il presente”[3].
O anche: spesso noi cerchiamo l’essere in quanto tale e cogliamo invece
l’essente[4]
(: “l’essere dell’ente”, laddove l'accento cade sull'ente).
Tutto
questo, ancora, nel senso per cui nella stessa “oggettualità”, nello stare
qualcosa di fronte a noi in quanto oggetto, si può ravvisare un modo della
presenza[5].
Nella
parte finale di Sein und Zeit si ha, su questa linea, il riferimento
critico alla filosofia di Hegel, il quale aveva asserito fra l’altro: “solo il
presente è, il prima e il dopo non sono” e ancora: “l’oggetto della filosofia è
il presente, cioè il reale”[6].
La riflessione critica si può estendere però sino a risalire all’antichità:
della oésÛa greca e della parousÛa si può affermare che esse racchiudono in sé, in modo
predominante, il senso del tempo.
Dunque,
secondo Heidegger, l’essere quale “[…] essere dell’essente, all’inizio della
storia dell’occidente, e per tutto il suo corso, appare come presenza, come Anwesen”[7].